Vagito
Soccombe ‘sto cuore nuovo
Al primo vagito, squartato
Ancor caldo dal rovo
Ove l’hai gettato

Vagito
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Vagito
va-gì-re (io va-gì-sco)
SIGNIFICATO Di lattante, piangere; essere agli inizi, ai primordi
ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino vagire, di origine onomatopeica.
«Questo racconto giovanile è il primo vagito della grande scrittrice che sarebbe diventata.»
Questa è una delicata pianta che ha saputo ricrescere nella lingua e nell’immaginazione di popolo dopo essere stata rotta e dimenticata. Ma vediamo che roba è questo vagire.
In latino il termine vagire era un verbo concreto, che però aveva una certa ampiezza: si poteva riferire a versi di cuccioli umani, certo, ma anche di capretti; e ancora, con un’estensione maggiore, poteva rappresentare un grugnire, e perfino un echeggiare, un risuonare.
La sua base è onomatopeica, ed è di impressionante semplicità ed efficacia: uà. Ci può far riflettere, perché è una rappresentazione fonetica che ancora oggi (anche senza saper nulla di questa etimologia) frequentiamo e usiamo istintivamente per rappresentare il pianto di creature appena nate. Un bel punto di contatto e di continuità con le nostre nonne e i nostri nonni di cento generazioni fa.
Anche se non è sopravvissuto nella lingua popolare che si è differenziata dal latino fino a diventare italiano, nel Cinquecento il vagire è stato recuperato come prestito. Dapprima nel senso concreto del piangere del lattante, e poi con una certa verve figurata in significati estesi che vengono da sé.
Il vagito è una prima voce, una prima manifestazione di quella che diventerà una persona — e così il vagire acquisisce il significato di un essere ai primordi. Vagisce il bambino nella culla, ma nei più antichi insediamenti sul Fiume Giallo e sul Fiume Azzurro sentiamo vagire la civiltà cinese, alcune opere possono essere i primi vagiti di una letteratura appena nata, alcune canzoni i vagiti di un gruppo — e quando proprio mi sale il melodramma, posso anche parlare di come al tramonto le stelle vagiscano in cielo.
Usi figurati semplici, immediati, e che però possono contare su una certa raffinatezza perché adombrano una riflessione su manifestazioni e sviluppi ulteriori, fra riconoscimento di una distanza e di una continuità.
Splendido, ma c’è qualche sfumatura ulteriore da cogliere per intendere la specificità di questo termine. È un pianto alieno alla più gran parte del pianto nostro, di gente appena un po’ più cresciuta. È un termine che non si porta dietro quell’alone di tristezza e sofferenza, o a volte di gioia, commozione, compassione che il pianto diffonde: il vagire è un piangere, ma non comunica ciò che noi comunichiamo col pianto, non ha la complessità e i velami del nostro pianto; è piuttosto un fatto, che intenerisce e attira l’attenzione, tutto da interpretare, come una cabala. O come un verso d’animale d’altra specie. Il cavallo nitrisce, il leone ruggisce, e questa creatura in fasce vagisce — fa uà.
Testo originale pubblicato su: https://unaparolaalgiorno.it/significato/vagire
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