The Story
18 aprile 1912
«Kamille, avevi mai visto niente del genere?” disse Mak dopo quasi mezz’ora dall’inizio
del viaggio. La ragazza tolse lo sguardo dal finestrino e si voltò sorridendo per rispondere
ma non riuscì a dire nulla. Entrambi tornarono a guardare oltre il vetro.
L’Airship Marianne II stava sorvolando a velocità moderata le campagne settentrionali e
il forte rumore delle eliche posteriori pareva non turbare nessuno a bordo, sebbene
l’assistente di volo fosse costretta a sporgere l’orecchio e chiedere chiarimenti più volte
quando un passeggero le domandava qualcosa.

Mak aveva aperto un’altra confezione di tramezzini e masticava sonoramente vicino alla
madre, profondamente addormentata. Kamille, dall’altro lato del corridoio, seduta vicino al
sedile vuoto del padre, provava a scarabocchiare, con il carboncino, il panorama esterno
sul suo blocchetto di carta dai bordi stropicciati ma troppo spesso si perdeva tra i contorni
soleggiati delle colline lontane e i disegni sui fogli si trasformavano solo in macchie
astratte.
Hunder, il padre dei due ragazzi era in cabina di pilotaggio a dialogare con il fratello
Joan, co-pilota della Marianne; era stato quest’ultimo a regalare al fratello e ai nipoti una
crociera sulla nuovissima nave aerea turistica. Hunder accettò a malincuore, dato che ciò
avrebbe implicato lasciare il lavoro per qualche giorno, ma non aveva mai portato Mak e
Kamille in vacanza, nemmeno per un fine settimana fuori città: Hunder aveva un suo
negozio di orologi e cianfrusaglie che a malapena gli permetteva di portar da mangiare in
casa. La moglie, Francine, aveva smesso di lavorare dopo la nascita di Mak, il
primogenito, diciotto anni prima e, dopo l’incidente che le fece perdere l’uso delle gambe,
Hunder capì che avrebbe dovuto provvedere da solo per il mantenimento dei tre.
Un’impresa tutt’altro che facile ma Joan (e sua moglie Lori) e Thona, la sorella, erano
sempre stati disponibili ad aiutare anche economicamente i quattro.
«Chissà se papà si sta divertendo…” borbottò Kamille verso Mak, ora seduto al posto del
padre, vicino alla ragazza. «Sembrava preoccupato prima di salire.” Mak ingoiò l’ultimo
boccone del tramezzino al salmone e dopo un colpo di tosse si rivolse alla sorella «Lo sai
com’è papà, anche quando dorme fa calcoli e parla.” e stappò la bottiglia di succo d’arancia
che si portava dietro dalla partenza per prenderne un sorso. Kamille lo guardò con la
voglia di ribattere ma sapeva che Mak aveva ragione. Tornò a voltarsi verso il finestrino
quando un movimento improvviso della Marianne le fece cadere dalle mani il blocchetto
da disegno. Lo scossone fu accompagnato da un “whoo” di Mak che subitò si volse verso
l’assistente di volo la quale, sorridendo, iniziò a spiegare ai passeggeri che i vuoti d’aria a
quelle altezze erano perfettamente normali.
Quando Mak fece per voltarsi verso la sorella per chiedere se si fosse spaventata, un
altro scossone, questa volta più forte, fece sbilanciare l’assistente di bordo verso un
passeggero mentre il suo sguardo cancellava il sorriso nel tentativo di rialzarsi. Mak, nel
colpo, afferrò istintivamente la mano di Kamille ed entrambi si voltarono verso la madre.
Francine stava aprendo gli occhi lentamente e appena realizzò dove fossero i figli chiese
loro dove fosse il padre. «Con lo zio, ancora, mi sa…” disse Mak, ancora avvinghiato alla
mano di Kamille. La ragazza distolse lo sguardo dalla madre per cercare di intravedere la
sagoma del padre, a prua, quando l’assistente di volo aprì la porta per entrare nella cabina
di pilotaggio ma nello stesso istante un’ombra le avvolse l’occhio sinistro, richiamandone
l’attenzione.
Quando Kamille mise a fuoco l’immagine oltre lo spesso vetro del finestrino, non riuscì
a realizzare immediatamente se il tutto fosse vero, uno scherzo o solo frutto della sua
immaginazione: i suoi occhi e la sua mente le mostravano una piccola e malandata
imbarcazione in legno, con una grossa elica a poppa che roteava indemoniata, dondolare
sotto una vela che pareva creata da almeno quattro o cinque tipi di tovaglie e lenzuola, dai
colori più disparati, qualche metro sotto il vetro su cui Kamille premeva il naso. La vela si
muoveva ogni due secondi, piegandosi scoordinatamente su se stessa, come le ali di un
grosso falco stanco che tenta di non rovinare al suolo. Aggrappato a quello che poteva
essere un timone, ma che più probabilmente era solo una sbarra di metallo appoggiata a
prua, una figura dal mantello svolazzante e occhialoni dorati fissava la chiglia della
Marianne.
A bordo della grossa nave cominciò a serpeggiare una prima ondata di paura quando
qualcuno, dall’altra parte del corridoio, richiamò l’attenzione su “due barchette strane che
vanno sotto la…”; la vecchia signora non fece in tempo finire la frase che un altro scossone, accompagnato, questa volta, da un’esplosione, seminò il panico sulla Marianne.
L’assistente di bordo uscì di corsa dalla cabina di pilotaggio e si diresse verso poppa,
cercando di evitare le braccia dei passeggeri che cercavano di afferrarla per chiedere
spiegazioni. Mak era tornato vicino alla madre per aiutarla a estrarre la sedia a rotelle dallo
scompartimento sotto il sedile. Kamille si spostò dal finestrino e fece per alzarsi ma, come
se avesse letto nella sua mente, la madre tuonò «Kamille! Tuo padre arriverà a momenti.
Ferma seduta…” e la ragazza obbedì, tornando a fissare fuori dal vetro: nessuna barca a
vela era visibile ora ma il fragore metallico delle eliche mal ridotte si distingueva
benissimo da quello della Marianne e Kamille capì che in quel momento, chiunque fossero
quelle persone, si trovavano “sotto il pavimento.”
La Marianne non disponeva di armi da assalto, quali cannoni e balestre, essendo dedita
unicamente al trasporto turistico e, occasionalmente, di importanti carichi di merci;
tuttavia, sul ponte superiore, quello sottostante al dirigibile, accarezzato dai venti, era stata
installata un’orrenda teca di legno pregiato e vetro colorato contenente qualche fucile e i kit
di sopravvivenza. Krista, l’assistente di volo, aveva aperto la teca con la chiave a lei in
dotazione e si mise frettolosamente a tracolla le borse con i viveri e gli strumenti. Prese i
due fucili e si diresse di nuovo verso il ponte inferiore.
Un robusto gentiluomo baffuto fu il primo a notare i fucili in mano a Krista e barrì
qualche domanda mentre fissava la donna correre verso la cabina di pilotaggio. I
passeggeri, congelati dal panico e dalla completa ignoranza su come comportarsi, si
muovevano freneticamente da un sedile all’altro, da un finestrino all’altro, da poppa a prua.
Una grassa signora con orecchini e collane di perle luminose, improvvisamente, strillò
tanto da far voltare verso di lei tutti i passeggeri: la botola in legno a poppa, oltre gli ultimi
sedili, si era spalancata e il volto di due uomini adulti, calvi e con barba rossiccia incolta,
sbucarono dal pavimento. Passarono un paio di secondi di terrore prima che i passeggeri
realizzassero che i due ospiti sul ponte erano in realtà i due macchinisti della sala motore.
Non appena uno dei macchinisti mise un piede sul pavimento del ponte passeggeri, una
forte esplosione costrinse tutti gli occhi sulla prua della nave, in una cornice di urla e il
pianto straziante di una ragazza ancora seduta. Deboli spirali di fumo nero filtravano dalla
porta della cabina di pilotaggio mentre, quasi impercettibilmente, il rumore di vetri infranti
si confondeva con il borbottìo spaventato del ponte passeggeri.
La porta di legno nero della cabina di pilotaggio si spalancò d’un tratto, rivelando un
grosso squarcio nella vetrata frontale, sopra il quadro comandi del timone, davanti ai due
sedili di pilotaggio, completamente vuoti. Le urla di panico si moltiplicarono tra i
passeggeri della Marianne che ora percepivano le forti raffiche di vento farsi strada lungo i
sedili, in un frastuono confuso di eliche, pianti e vociare terrorizzato.
Kamille fissava pietrificata, in piedi, la cabina di pilotaggio, le lunghe ciocche ricce
castane le frustavano il viso: non riusciva a capire dove fosse suo padre. Mak, dall’altra
parte del corridoio pareva pensare la stessa cosa mentre con un braccio avvinghiato alla
madre seduta, voltava freneticamente la testa a destra e a manca, quasi a cercare qualcosa
o qualcuno che avesse dato loro sicurezza e speranza.
La Marianne si stava inclinando verso destra e i due macchinisti riuscirono a fatica a
raggiungere la cabina di pilotaggio; sparirono ai lati dentro la stanza, fuori dalla visuale dei
passeggeri che, sebbene desiderosi di sapere cosa stesse succedendo, non trovavano il
coraggio di avvicinarsi alla prua. Il cigolìo della Marianne aumentava esponenzialmente e
Kamille si chiedeva se di lì a poco non avesse iniziato a precipitare senza controllo.
Come se anche la Marianne le avesse letto la mente, la prua iniziò a piegarsi verso il
basso, accompagnata dalle urla strazianti di quasi tutti i passeggeri. Alla sinistra di
Kamille, fuori dal finestrino, le ombre di due barchette volanti apparirono da sotto la
Marianne e si portarono all’altezza della ragazza: ora poteva vedere chiaramente uno dei
piloti di quelle piccole imbarcazioni, un uomo baffuto, il volto rugoso che stonava con la
corporatura robusta, occhialoni bronzei e mantella. La mano sinistra stringeva la barra di
metallo che fungeva da timone mentre la destra si alzava dalle gambe stringendo un’arma.
Kamille vide la canna conica del fucile fissarla negli occhi e prima che l’istinto la
costringesse ad abbassarsi, una ventata bollente la spinse verso il sedile mentre il fragore
del vetro che si frantumava a pochi centimetri da lei la assordava al punto di non sentire le
urla della madre.
Mak fece per saltare verso la sorella ma un altro scossone della Marianne, preceduto
dall’ennesima esplosione, lo lanciò in braccio alla madre. Kamille sentiva il viso bruciare,
le orecchie fischiare e l’intero corpo tremare; nello stesso istante in cui allungò la mano
verso dove ricordava fossero il fratello e la madre, sentì un altro sparo, qualche metro più
avanti, e lo stesso turbinìo di vetri infranti che poco prima l’aveva investita. Capì che i
piloti delle barchette stavano facendo esplodere i fianchi della Marianne.
Il cigolìo della grossa nave turistica si spense e lasciò spazio a un frastuono metallico
proveniente dalla sala motori. “Si stà squarciando!” gridò un ragazzo dagli ultimi posti di
poppa mentre fissava il pavimento, quasi in attesa di vedere una voragine aprirsi di fronte
ai suoi occhi.
Kamille aveva aperto gli occhi quel tanto che bastava per distinguere gli oggetti che la
circondavano: sentiva il fratello e la madre chiamare il suo nome ma nella foschia dello
stordimento, il tentativo di alzarsi in piedi non fece altro che peggiorare le cose, facendola
sbattere verso il finestrino distrutto qualche istante prima. La schiena colpì violentemente
la parete danneggiata che cedette come per magia al peso della esile ragazzina.
Tutto accadde troppo rapidamente per permettere a Kamille di elaborare un pensiero,
una linea d’azione o una parola: il corpo divenne leggero come una piuma ma veloce come
un sasso, l’aria affilata le scorreva tra le orecchie fischianti; il caos della Marianne si
allontanava di qualche chilometro ad ogni secondo.
Poi un tonfo. Kamille grugnì sputando. Qualcuno fece altrettanto di fianco a lei. La
schiena della ragazza sbattè contro quella che a velocità normale avrebbe potuto essere una
superficie morbida. Avvinghiata al corpo estraneo, in un urlo silenzioso, si sentì
precipitare ancora per qualche istante. Poi svenne.
Sdraiata per terra, di fianco al corpo svenuto di Kamille, Krista osservava la scena dai
detriti di una piccola imbarcazione in legno appena precipitata: gli occhialoni dorati della
donna riflettevano la Marianne avvolta in una nube di fumo, assediata dalle barchette,
come api intorno a un alveare.

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