20/06/1924 – Ore 19:29 – #357
Vi son istanti ‘n cui mi percepisco definito dall’assenze quando di contro il cumulo de’ mie’ possedimenti d’in fuori e dentro farebbero rossire qualunque avventore s’ì solo avessi ‘l modo d’ostentare ‘l tutto sin ricorrere alla stantia retorica boriosa che tanto sborda quando mi diletto ‘n la mia giostra d’auto-elogio. Qual pote ser il significato dietro ‘l definirmi pe’ l’assenze, dimanderà l’eventuale lettore di tale ciarpame? Ebbene par ch’ì vaghi – ‘n entrambe l’accezioni finora citate – pe’ ville e vite sin contentarmi dello ch’ì tengo già ch’in fondo è quissà financo troppo se vo’ comparandolo coll’individui che solgo scorgere all’angoli delle calli o dei quali leggo ‘n le nuove dello strillone; tuttavia, la persona ch’or si perde ben volentieri ‘n codesta ammissione pare ser priva d’un’identità a sé stante ma tale vien definita, quissà meda solamente, qual il poetucolo ch’ancor lagna dell’amori andati, il fanciulletto che ‘n trova un coerente approccio al cotidiano, l’eremita che ‘n ha di che spartire col volgo, ‘l borghesino sin fabbriche che brama l’impero. Ed ì sin l’amori, sin scopo, sin cerchie, sin imperi a spiaccicare liriche sull’ennesimo foglietto che chi sa d’onde ne viene. Che sia ‘l tutto ch’uscì ‘n la mane d’oi, tale rigurgito introspettivo di poco troppo onesto, non mi dispiace quasi poiché di falso v’è ben poco. Ch’una mira dell’anno corrente possa ser la di porre insieme alla benemmeglio, per adesso, una similitudine d’identità fatta dello che son per vero e non dello ch’ho poco sopra elencato? Sebbene molta della mia arte pare per vero ser un accocolarsi sin vergogna nell’assenza e ne’ vagheggiamenti, nel torpore del vittimismo ch’ancor detta sovente com’ì mi pongo dinnanzi alli dell’altri occhi. Poiché ben lo so che tale mi paleso ogniqualvolta mi vedo discorrere d’un poco di più del sottoscritto dinnanzi all’ottimi ascoltatori, que’ pochi che ne rimangono. Superbo, bisognoso d’un plauso che ‘ncora ‘n riesco a mostrarmi da solo. Pure ‘l numero, quell’inesorabile conto de’ dì che caponomina l’entrate di questo libello son l’assenza e nulla più: pochi dì oramai da lo ch’in fondo è un anno sin aver avuto ‘l modo di condividere un solo minuto con Valerie. Perchè di fondo, tutto questo è ‘l punto. Tutto questo quintale di carta pasticciata vien dalla mia incapacità di essere un qualcuno che non sia definito dall’assenza d’ella. Ogni alba debutta colle memorie più feroci, ogni dì termina colle immagini più tenere, scevre dall’incomprensioni, l’errori, l’ignoranza e la violenza di ciò ch’era e non avrebbe dovuto essere nulla più d’una storia come tante, coll’introduzione ‘n rima de’ migliori poeti del tempo, una trama sin garbugli, un finale prevedibile, fiabesco, scontato, eterno. Mille e poco più i dì ch’or mi separano del primo epifanico riscontro coll’ego che di dentro tentava di porre in parola lo ch’in fondo, ancora non riesco a esplicare. E n’avrei scritto fin l’ultimo respiro, ti dissi, n’avrei discorso cotidianamente, ‘n tutte le forme a me note, iscosta ‘n un sonetto, strillata ‘n un manifesto che nemmeno tenta di celare un qualche richiamo a lo che fummo. Ma fummo. E ‘l passato remoto ch’or mi viene d’usare pesa com’un monte intero poggiato sin accorgersi sull’ultimi brandelli del mio essere ch’ancor ti lassavo da parte, pe’ quel dì ‘n cui ‘l tutto tornava a ser tutto. Eppur col niente rimasi, col niente costruii milliaia d’edifici, tutto d’intorno al mio stolido non rassegnarmi all’ovvio, col niente mi sfamai pe’ tutti i mesi ch’or vivono su codeste cartacce ch’or san di filosofia, or d’impiego, or di follia, or di conoscenze, incontri, paesi, contee. Ma ch’in fondo san di te. E dondolo tra ‘l detestarmi e la pacata testardaggine che didentro non si cheta al minuscolo briciolo di speme ch’in fondo un dì lontano possa ravvederti e considerare, financo errando, ch’un solo fato v’è e ch’un solo fato vi fu fin dal dì che di due ne facemmo un solo guardo. Arriverà, ben lo so, ‘l dì che dovrò lassare andare per vero ‘l tutto e ch’ogni speme si tramuterà ‘n amaro risolino. E per te già arrivò, pure questo ben lo so, or che nulla di tuo mai giunse fra le mie carte, fra le mie recchie per vie traverse, ai mie’ occhi platealmente. E quante volte mi sento d’invidiare come già feci allora, quel tuo saper poggiarti a un qualché di solido ove trovare la rassegnazione, colle braccia che ti sporgono novamente le redini del tuo ambire, del tuo viver di vita propria. Che sia dimani? Dimani che signo ‘l primo dì d’un’estate che pare non giungere, il terzo anno da quel primo e ultimo confronto che feci col fato e col cielo, dimandandogli se per vero fossi reale o solamente un vento di stagione che scompone ‘l bavero, raffredda e picchia ma che poi sfuma fin dietro i colli. Come lassare scorrere via continuando a viver dell’ispirazioni ch’ancor paiono non esaurirsi? Or che nulla se non lo creo parla di noi. Or che nulla, di fondo, siamo. E ciò mi strattona verso ‘l concetto ch’ha iniziato quest’entrata. Poiché nulla siamo. E mi sfibra viver il nulla quand’ho il tutto didentro. E, maledizione, Rirì, eri tu ‘l tutto.

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