Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #353

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16/06/1924 – Ore 10:24 – #353

Oi m’appoggio su ‘n tappeto di nubi cotonate stiepidite da un sole pastello ch’amo più d’ogni altra sua manifestazione, passeggio fra l’ellissi d’un’altra solitanza futile e la brama ch’il mio ammasso di membra torni a fungere come ‘sì bene m’ha abituato sovente. Oi v’è un nulla permeato di mutamenti, bagliori di speme ch’agguantano le intercapedini delle persiane appena serrate e si settano fianco col deseo che in fine l’abbracci come ‘sì tante volte promisi loro. V’è sempre meno quivi ‘n April Street, chessìa didentro d’un’anta o d’un fugiglio cerebrale. E ciò è bene. A minuti appoggi del piede, un poscia l’altro, veo ch’in fondo s’allarga ‘l sentiero e mi fa sentire sulla punta della lingua quel pizzicore che tanto sa di discesa. Oi fra l’ultimi bisbigli di polvere ancor tarantellanti sui vetri dell’occhiali veo ch’il mio essere s’appresta a reclamare un principio di forma propria, autonoma e libera dall’esigenze irrazionali che ne limitavano la muta; crepe di poco ancor collose ai margini su tutto ‘l contorno d’una crisalide d’agio e mediocrità. Quando perfino nel lucido almanaccare mi settavo ‘n cima al piedistallo delle mie tribolazioni, cotanta quiete mai potei trovarvi, mai ‘sì tanto affetto pe’l roveto a me innanzi potei esperire. Sortire dal guscio, quissà un dito almeno, comincio.

Ore 17:36

Desto da prima dell’alba pur’oi che ‘n aveo scritto nulla sull’agenda; quissà, oramai, ‘l mio orario pare ser codesto, lo del buio ancora fitto, lo dell’ultime anime erranti che cercano il viottolo di casa barcollando di vini e rimpianti, aimè.  Eppure tale è scorsa la mia giornata finora, ebbene, non didentro d’un bicchiere, per chiaro, sebbene qualche tasca di rimpianti solgo tenerla in tra le dita a giocherellarvici. Tale come ‘l nulla ch’aveo fissato per oi, dì di festa settimanale, avulso dell’obbligazioni cotidiane ed esiliato d’un qualsiasi altro rapporto d’interazione dovuta o voluta. Mi diletto sovente a lassarmi titillare dalla sfida che lo scrivere del niente mi pone innanzi ché d’un qualsivoglia motivo, ‘sì tanta paradossale demagogia pare ser lo che m’ha sovente insegnato a discorrere ne’ momenti ‘n cui di fatto vi era bisogno. Capita ch’ì guardi poco d’oltre di questo naso, ‘n codesti momenti, cercando un tema o un filo d’un gomitolo disperso a mezz’aria per poi sostare sulla concretezza d’una madìa, d’una ciotola ‘n terracotta ancora ‘n attesa a lato del lavabo e poi virare verso l’appannate, col guardo a sghimbescio, come a spingere tutte gli spunti reconditi pe’ iniziare a parlare verso quella parte che paio aver didentro della testa che macina testi com’una fornace di locomotiva e ì che lì a fianco la nutro a badilate di tutto. Ecco, financo ora mi par sia un elogio al nulla che di contro par dressarsi di tutto ‘l resto, oppure, và, un’apologia dello stesso niente che ‘sì tanto aborro e tenzono ‘sì ferocemente nell’ogniddì, poiché ‘n tale niente v’è quel brusìo che pare rivare dal didentro, ch’ha ‘l mio tono, appena sussurrato, e che ripete lo ch’in vece nel tutto de’ mie’ tutti non sento mai. Parla anch’esso di tutto ma ne’ modi che nemmeno ‘n sogno riesco a sentire, cheto, prodigo, comprensivo e appena triste, soffocato nel mormorìo dall’incombente vortice d’una nuova settimana. ‘Sì ch’allora mi lasso baciare l’intero cogitare da codesto respiro di nulla, colla promessa di serbargli un dì, quissà due, pe’ tornare a essere ascoltato, capito, compreso, apprezzato.



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