Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #348

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11/06/1924 – Ore 07:48 – #348

Oi mi lasserò ammuffire d’un poco in tra le scartoffie dell’ufficietto di Bleedbig Street e qualche sana divagazione di cogito, sempre ne’ limiti di lo ch’ho di che fare durante ‘l dì pe’ i vari progetti sui quali intendo d’ogni modo gettarmi. Non ho brama di tornare su codeste paginette nel proseguio dell’ore di sole indi tenterò di sproloquiare più esaustivamente possibile or com’ora. La notte di sonno profondo m’ha aiutato parecchio ma vi sono ancora parecchie manifestazioni oniriche che mi perplimono oltr’ogni previsione e debbo ancora comprendere se la situazione si basa su una qualche solitanza a dir quasi errata o s’è qualche rimuginamento dell’inconscio che non riesco ‘n altro modo a esprimere durante ‘l dì. Stamane ho composto una missiva per Susan, congedandola con grazia e dimandandole d’interrompere futuri contatti eventuali; probabilmente è una decisione piuttosto drastica ma il tremolìo ch’ella si trascina seco ‘n ogni capolino ch’effettua quelle sparute volte annuali è uno dei nei che debbo eliminare ‘l più possibile dal mio bagaglio d’attriti e costruire tali muretti d’isolamento e apatia mi permettono d’alleggerire ‘l bagaglio di confusioni e vagheggiamenti che solgono riemergere ad ogni cordialità inaspettata. Inoltre, credo ch’un percorso simile debba farlo anche per l’ultimi memento che mi riconducono a Valerie, lassando intatti solo quelli che, di fondo, mi rammentano l’enorme quantità di passi ‘n avanti ch’ho compiuto. Quissà debbo rendere impossibile qualsiasi forma di contatto ne’ mie’ confronti, sebbene dubiti ch’in fondo, ciascuna delle più importanti persone del mio trascorso emotivo possa risorgere dal vacuo pe’ ristabilire un qualché di significativo. Debbo accettare che s’il corso dell’eventi s’è palesato in tale maniera, ebbene, v’è poco ch’or si pote fare pe’ rimediare a ‘sì tanti danni, ‘sì tante errate interazioni e ‘sì tanta stoltezza immatura. Non ho né la brama tantomeno la premura di sostituire l’effetti che codeste storie ormai ite han sovente generato in me sebbene ‘sì pare ne’ dì ove m’aggiro pe’ i quarti d’April Street colle memorie ancora vivide. Ma è una nostalgia selettiva e incoscia che tenta di traviar tutto lo che di buono, in vece, ho imparato a pensare e di cui mi convinco costantemente. Potrebbe non parere tale ma, quissà, è uno de’ mestieri più ardui che possa esserci, remar contro la corrente istintiva usando solo logica, forza di volontà e senso del dovere verso quella coerenza ‘sì tanto latitante in precedenza. Ecco, queste sì che son vanvere che debbo esternare più spesso, perfino, oso dire, a voce alta innanzi a qualche superficie riflettente. Passeranno le brame e sfumeranno colla vividità de’ ricordi. Passerà ‘l rammarico, passerà tutto lo ch’in fondo ancor resta grappato d’uno spuntone all’altro del cranio. Cada dì come questo, cada dì ove mi par di scivolar dietro di qualche scalino, di fondo, è lo che necessito per comprendere come salire l’altri scalini che si parano dinnanzi. Fallire, bestemmiare e rimboccarsi, poscia uno scrollo o schiaffo, le maniche è lo che dovrei esigere d’ogni singolo giorno. E oi, di fatto, tenterò di attuare un qualché di ulteriormente drastico pe’ continuare col mio stravolgimento di solitanze. Chiacchieravo ieri con Ada su quanto di fatto ho scritto dì per dì su codesta agendicola sin trama o morale ed ella m’appare sempre due vite più avanti di me quando, coi suo’ commenti, mi lassa interdetto e orgoglioso: ‘sì è come funziona un poco la testa d’ogni volto che vedo scorrere pe’ la calle sotto l’appannate del salotto ov’ognuno di quell’individui sin nome ma con mille personaggi didentro sta svanverando alle pareti del cervello cercando alcune delle stesse risposte ch’ì anelo, mi dò e rifiuto; ognuno d’essi sta vagheggiando sulla sua Valerie o sul suo Arthur, approcciando ogni scalino di fronte o didietro con tasche piene di dubbi, insicurezze, ghigni d’orgoglio e timori esistenziali. Chi più, chi meno, barcolla tra ‘l bilico dell’inerzia ovattata della banalità sognando l’irraggiungibile e l’effimero, contentandosi d’un nonnulla o ambendo al tutto di tutto. Per vero, ì lo scrivo cotidianamente, ma nulla più d’essi in fondo sono, nonostante l’elogi e le lodi d’Ada, Florence, la dottoressa Nauer o Juliet. Nulla più d’un altro volto che scorre le calli con più domande che risposte. Quissà, l’unica differenza è che mi frustra fin al vomito realizzare quand’ogni volta mi confondo nella folla e non mi riesco a contentare d’un vivere lineare, divinabile e sin risposte. S’è vero, in fine, ch’un mero cumulo di polvere fetida sarò tra qualche decina d’anni, ebbene, ogni dì ha motivo e obbligo d’esser come codesto, intriso di codeste epifaniche fami, permeato d’una quasi rabbiosa bisogna di stringer le pugna e incidere un qualché d’imperituro ‘n ogni ora che ticchetta via e sfuma nel vacuo delle memorie. Vo’.



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