09/07/1923 – ore 21:21 – #10 – appunti sparsi
Un giro di torno al sole addietro, in pe’ l’erbacce d’Eggville, passeggiato fra ‘l torrido scorrere dell’ennesima ora sin meta o contenuto, ecco lo che rammento di tale ‘dì del calendario, oramai. Il guardo ballerino fra la parietaria e le balle di fieno secco, deriso dai mosconi metallici, l’ovatta della caciara d’un festino ‘sì futile quanto necessario al consolidamento delle tradizioni. E l’abisso di dosso, dressato ‘n colori saturi, secchi e spigolosi; la sua mano ghiacciata poggiata fra il mio collo e l’inizio della spalla colle dita lunghe e dinoccolate che s’insinuano sotto ‘l primo strato di pelle pallida e fendon i rami ossuti fin a rivare all’altrove mio intimo, laddove s’accocolano i timori, le più puerili insicurezze, gli strascichi d’ogni singola ferita ch’ha smesso di sanguinar per di fuori e resta col grido mozzato didentro, spersa fra tutte l’altre. Fumaccio e bollicine come palliativi psicosomatici mentre ‘l tristo farsi largo dell’abisso s’arresta ‘n dove alberga anch’ella, oramai, priva di materialità, priva di voce, speme, senno. Stringe. Stringe finché una pallotta d’aria residua mista a cruore s’aggrappa alla gola e annerisce i contorni della campagna d’intorno. Che fare, or che l’abisso vuol ser me ed ì non ho motivo per esser qualcosa di diverso d’esso? Lassarsi andare, quissà, sarebbe il miele più dolce che potessi trovare quel dì, sarebbe la quiete ch’anelo fin da che ho memoria. E poi? Fluttuare sin movimento nel buio d’un’ultima decisione, trafitto per tutti l’infiniti che verranno dall’ultima scarica di pensierucoli corrotti, di biasimo, rammarico, incapacità… Inutilità. Spegnersi in fine. Spegneri e non rammentare più. Spegnersi e non rammentarla più. No, tetro abisso goloso, lo che di fondo mi rende dissimile del tuo consueto avventore impantanato fra i tuoi sussurri è l’idillio ch’in fine riesco a dissotterrare da queste macerie fumanti di agonia e disperazione. Divincolai ‘l mio core della sua mano sbigottita e lo consegnai quel dì stesso alla dottoressa Nauer, spaurito, solo, divelto. Un respiro. Un respiro soltanto tra me e ‘l cosmico niente di pace e silenzio. Compresi, allora, ch’ì preferisco lagrimare accoltellato dalle paure e dall’urla sofferenti del mio io, piuttosto che lassar trionfare quell’abisso ghignante, assetato solo de’ mie’ battiti furiosi. Un solo respiro di distanza. Quant’appresi quel dì.
Nota dell’autore: L’entrate del libello denominate, di seguito alla numerazione, come “appunti sparsi”, si riferiscono a riscritture – inserite molti mesi dopo la loro creazione nell’ordine cronologico adeguato del plico di fogli che chiamo agenda – di divagazioni, considerazioni, pensieri e riflessioni gettate su carta durante periodi in cui l’utilizzo dell’agenda non era fondamentale; tali appunti sparsi vivevano su brandelli di tabulati da buttare via, tovaglioli a grana spessa di locande della regione, paginette esuli di libri ch’ormai non possiedo più, e qualsiasi altro sostituto adatto alla narrazione cotidiana de’ mie’ garbugli, dei nulla e dei tutto.

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