Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #8

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07/07/1923 – ore 13:25 – #8 – appunti sparsi

La mane s’è dispersa pe’ le valli di Overknow ‘n una maniera parecchio imprevedibile: son riuscito sin fatiche di sorta a ser più produttivo de lo ch’aveo divinato ier sera coricandomi, quissà pe’ un accumulo di motivazione che di qualche parte in fine deve pur uscire. Conto, tuttavia, di spengermi una mezzora scarsa visti l’impegni del meriggio ove, tra l’altre cose, debbo incontrare l’altri membri del circolo letterario e frontare un paio di quistioni gestionali. Mi sto dimandando sovente, ‘n questi dì, fin dove si spingeranno le numerazioni ch’appongo in capo all’entrate di queste paginette oltre che [illegibbile] sin perdere questi brandelli ov’appunto tutto lo che mi scorre pe’l cervello, sin pensare per vero molto prima di scrivere. Credo sia palese, di fatto. Una parte medi anela a un costante aumento d’esse, a modo di testimoniare l’effettivo impegno che m’ho imposto ‘n tale impresa, ove persino ‘l centinaio parrebbe, credo, un qualché di cui andar fiero; l’altra parte di contro brama silente un’interruzione sin preavviso, un lampo nel nulla del cotidiano, una grandinata sul volto che mi farebbe ripartire dall’uno. E credo ch’un lettore eventuale capirebbe lo ch’affibbio alla grandinata metaforica. Quant’anni può ‘l cor mio, trasandato e stolto, attendere ch’un intervento provvidenziale ne coccoli l’ematomi prima ch’esso stesso mi si rivolti contro pretendendo le dovute attenzioni dall’unico individuo che dovrebbe garantirne la sicurezza e l’eccellenza? Par sia questo ‘l vero esperimento che risuona didietro d’ogni numeretto apposto in cima. Par crudele, per vero, al confino coll’autolesione, per dirlo in vero. Oppure, d’altro punto di vista, par anco la sfida finale che debbo superare per vantarmi, un dì ch’ha da venire, della scorza coriacea che s’è andata ad avvolgere di torno del mio organo pulsante proprio grazie a codesto esercizio di resistenza, costanza, reminiscenze; un ventaglio di lame nel petto, insomma. Ma sto divagando ancora. Un quadrante del mio ego didentro si dimanda ove conservare questo fazzoletto di pensieri, un altro mi prega di serrare l’occhi e dimenticare l’universo intero per qualche minuto; un altro vorrebbe continuare a scrivere fino che le mani non rispondano più o l’inchiostro di codesta boccetta sia tutto spalmato sulla carta. L’altre parti che mi parlan didentro il cranio, ancor non le comprendo, ancor paiono solo caciara, soffi di libeccio sin particolare scopo se non lo di scomodare il disagio dello spaesamento. Mi verrebbe di che urlare, ‘sì tanto spesso, macari ritto di mezzo un largo campo umido appena arato, lassato a respirare all’alba, in preda all’appetito dei corvidi, noncuranti de’ fantocci malandati appostati di vedetta. O, per lo che vale, delle mie grida stesse. Di fondo, mi verrebbe di pensare ch’essi penserebbero d’aver trovato solo un ennesimo fantoccio; per vero, uno ch’urla i suoi dolori al nulla del sole nascente ma pur sempre solo un altro fantoccio.



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