Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #308

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02/05/1924 – Ore 13:19 – #308

Due lunghissime settimane sin aver avuto il tempo, la voglia o la forza di pormi a scrivere su questo libello, ormai di ‘sì tante pagine che casi è stato ciò ch’ha anche contribuito al mio latitare da ‘ste bianche facce affamate d’inchiostro. Perché mancano ‘sì tanti dì da codesto diario a me ‘sì caro? Dalli scritti ch’ho per le mani mi son arrestato al duecentonovantesimo giorno e riparto oltre il trecentesimo. Ebbene, colla partenza del progetto operativo della Kryomont, l’orari completamente stravolti ch’han messo a soqquadro ‘l mio solitare confortevole, le peripezie ormai vorticose delle mie finanze e la mia salute mentale tornata a camminar sin ritegno su’n filo teso sopra d’un baratro scuro, mi son visto le mani legate ai talloni, rannicchiato ‘n un fugiglio polveroso a conversare meco nel tentativo di estrapolare tutto lo che di più motivante potesse essere salvato e salvabile didietro l’ante del mio pensare; torno a gittarmi su queste carte solo ora che molti delli schiaffi presi ‘n volto ‘n questi dì son stati malamente somatizzati, or che perfino la dottoressa Nauer ha dovuto ricorrere a lunghe sedute col mio ego, or che arranco pe’ i sentieri di dubbio e fallimento che d’un lato credeo d’avermi lassato alle spalle per il tempo che sarebbe venuto. E non s’è ancora dissipata la foschia, ancora non s’è chetato il caos che par alloggiare sconsideratamente nel mio cranio ma debbo in fine trovare ‘l coraggio di frontare ‘l tutto come ‘sì tante volte addietro già mi son promesso. Che sia questa la volta buona pe’ ricostituire un Arthur di fattezze pregevoli qual ‘sì molto ho agognato? A ciò mi rispondo positivamente e sebbene, datasi con grande probabilità sia ancora pristina dal mio saltellare di concetti confusi, tale quissà è ‘l punto più basso ove mi sia mai ritrovato è, per vero, per questo, anche ‘l punto più importante ov’ì mi posso trovare e ove aveo la bisogna d’essere pe’ saltare verso ‘l gradino successivo. Oi è un giovedì di pioggia in Lylcoin. Mi trovo nel mio piccolo ufficetto in Bleedbig Street, da poco riordinato e tirato a lucido, ove tenterò d’isolarmi molto ne’ mesi a venire pe’ costringermi a lavorare su tutti l’aspetti che ancor tormentano il mio essere, a mio dire, “poco”. Quissà ho sottovalutato l’influenza ancor materiale e somatica ch’il fanciulletto percosso e deriso che fui ha di modo ancora sui miei cotidiani e, collo sforzo immane ch’ho in atto di riconoscerlo, accettarlo e lentamente accantonarlo, mi vedo casi costretto a cangiare la maggior parte delle mie solitanze diarie, com’ho già fatto e ripetuto, quissà dì per dì, nell’ultimi anni. Sorgono dalle vicissitudini d’ogniddì le solite debolezze animali ch’anelo a debellare con più vigore che mai, la mia insufficienza caratteriale, sia dato com’esempio, gli strascichi irrazionali e via via sempre più insensati ch’ancor scarrozzo per Valerie, la mia apparente incapacità di stabilirmi economicamente come una figura di rilievo nel mercato finanziario al quale ho sfiorato la corona prima di perdere l’instabile equilibrio e ora non scorgendone più nemmeno il contorno distante, la mia propensità all’isolamento sociale ‘sì tanto produttivo quando accolto come vantaggio e non come punizione pe’l mio acidulo sentore borioso e superbo. E chi sa quanto tale lista potrebbe continuare se solo mi fermassi durante i dì ad appuntarmi ogniqualvolta lo sciame di pece nera affiora tra le recchie. Ov’ì trovi la forza ancora pe’ scotermi ‘sì tanto, rimboccar i polsini della camicia fino al gomito e pormi a cercare una via di fuga dalla mediocrità ‘sì palese, solo il cielo par saperlo. Il cielo, la dottoressa Nauer, ed io, ne’ giorni come questo: oi che l’unica mira è la di mirar ancor più ‘n là di dov’ho mirato finora, la di fallire ancora e ancora colla speme di trovarmi novamente qui tra qualche mese a discorrere di quanto puzza di lercio l’ennesimo fondo d’un pozzo sempre più nero e di quanto sa di caprifoglio e menta l’ennesimo morso al labbro che mi spinge ad artigliare le pareti del pozzo per saltarne fuori. Non v’è singolo fallimento che possa far impallidire la maestosità delle mie mire a lungo termine, e quanto sia lungo questo termine ha finito per importarmi sempre meno, col passare dell’anni. Non credo vi sia più spazio per le soddisfazioni immediate che ‘sì tanto ho corso cercando poiché son le stesse che sfrigolano via ‘n un semplice sbuffo di malumore, ‘n un semplice singhiozzo del passo cada volta che cincischio gongolando nel mediocre traguardo infranto. Non son più i traguardi a importare e, per vero, me ne vo’ rendendo conto quando ‘l guardo finisce per perdersi sull’opaco del muro ingiallito del mio salotto silente, col deseo di lagrimar, detestando la debolezza d’animo ch’in que’ casi va permeando ogni motivazione. V’è di che lagrimar, quissà, di tant’in quando, ma non ora ch’il tempo scarseggia, non ora che le forze de’ muscoli ancor mi permettono d’issarmi, azzannare un’altro dì e apprendere a testate sul muso lo che significa ser dissimili, maturi e su’n sentiero di parecchio differente dello d’altri. ‘Sì che ricominciare non mi pesa più poiché cada volta mi par d’aver imparato un poco meglio a pigliare una rincorsa ancor più efficace. Cada volta che mi ritrovo alla base della scala, paion sempre più bassi gli scalini, cada volta é sempre più soffocato ‘l malaugurio del vocino infantile che sì, di fatto, mi vedo a detestare. Poiché non è elli che m’ha fatto ser lo che son oi, quanto ‘l mio cotidiano voler disfarmi di lo ch’ero fino a ieri.



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