10/04/1924 – Ore 11:48 – #286
‘Sì dovea ‘ndare. Giunger fino l’orlo d’un altro, un ennesimo precipizio, scorgere il buio inelluttabile del fondo della vallata e stringer le pugne e il grigno colla brama di bellare che poch’altre volte se non mai prima m’ha pervaso le membra con ‘sì tanta frenesia. ‘Sì dovea piovermi in dosso l’epifania che bisognavo da ‘sì tanti anni, dal nulla d’una mane grigiastra impiastricciata sulle solitanze letargiche ch’alterno alla consapevolezza di star procrastinando lo ch’è per vero importante. ‘Sì capita ‘ncora, per l’ultima volta, ‘l cambio del sentiero che in fine mi compagnerà verso la discesa che mai scorsi, poscia la salita più ripida, scoscesa e sconnessa ch’abbia mai potuto notare qui d’intorno. ‘Sì rinasco dal grembo dell’ennesima accettazione de’ mie’ limiti umani col deseo tanto stantìo quanto furioso di sfidare codesti, stracciarli e lassarli fluttuare al novo vento di quiete risoluta ch’or irà pervadendomi. Dalle ceneri sparse d’un manichino dissimile dell’altri, per fuori e dentro, dai segni ancor freschi delle ferite ch’ì solo m’apposi ovunque veo pelle e carne, dalla foschia ignava della speme e dell’onirico or mi sento sfuggire, colle urla di dentro che non chetano col sonno, col silenzio, fra le genti, nemmeno un singolo istante si pagano, scemano, mai. Or le nutro, dannazione, or le seguo, or le lasso sgattaiolar via delle costrizioni maldestre ch’han scalciato via cada iniziativa ch’esse andarono promuovendo. Or si fa l’omo che ne’ tanti libercoli vo’ cantando ‘n prosette da nulla, or si lassa crescere per vero quell’albero ‘sì stretto fra le rocche puntute del cortile. ‘Sì dovea andare. Giunger allo stremo delle forze assennate, colle lagrime appese appena dietro l’occhi pe’ la frustrazione del non riuscire a ser lo che si sa d’essere. Ah, crudele condanna de’ scapestrati filosofi, vanto del borioso e saccente omuncolo insoddisfatto di tutto e ch’in tutto vole eccellere. ‘Sì sono, qui a combattere cotidianamente il mondo d’intorno sin accorgermi che fin ora soltanto contro il sottoscritto ho sfoderato e affondato i colpi. Or che nello specchio si delinea ‘l volto mio e da questa parte del vetro, per contro, si rizza e vive, finalmente, lo ch’era dell’altra parte, or ch’elli, ch’io per vero, non commisero più l’anni carbonizzati dal falò di disillusioni e compiacimento, or par ch’abbia senso ‘l mio mover pei giorni. Oi getto al concime un’intera esistenza come s’ha da fare coi pomi marciti e dalle muffe soffocati. Oi pronta da lassare cascar in le mani v’è un’altra mela. Più bella alla vista, più sana di dentro, più buona al sapore, più forte fuori, un sasso cremisi che fra le dita pare immortale, ch’è immortale; sì la lasso rotear asimmetrica sulle gobbe consumate della palma. ‘Sì dovea andare, benedetta effemeride del prossimo incommensurabile sovrano dell’intera umanità. Meno di millesettecento giorni vi sono fra questa luce abbagliante ch’inonda la prima volta ch’apro l’occhi in vita e l’impero di quieta soddisfazione che mai – mai, diavolo d’un Arthur – ho mai esperito. Via il memento delle debolezze, via ‘l fango della pigrizia, via le polveri cumulate sull’obbligazioni posposte. Via tutto lo che ‘n fine, dì per dì s’avventa in dosso per battere un altro miglio di strada. D’or fin la fine corro. D’or fin oltre d’essa, non v’è più tempo pe’ sostare e attendere. Tante ore vi sono per il dio del sonno, tante ore vi saranno per chetare le membra sin ch’ì possa far nulla. Sicché or si corre. Mane di nulla, codesta ch’ha scemato ed è morta su quest’entrata. L’ultima mane di nulla ch’il povero ometto prima del sottoscritto m’ha concesso, or che finalmente cheta sin pensiero dietro il vetro dello specchio. Oi debbo far spazio pe’ la casupola d’April Street poiché tutti i timori han da compagnarmi ‘n ogni_istante de’ prossimi millesettecento giorni. Codesto, il memento dell’ultimo spiro dell’Arthur Parker che duecento e ottantasei dì ha retto appeso alla parete del burrone. Oi l’ho sollevato, per un braccio, scosso pe’ rimover l’ultimi sbuffi di polvere e terra, dressato per benino e serrato di dietro della sua immagine. Là, ove può chetare. Ed ì, a braccia aperte, a scaraventarmi nel nero della bocca del precipizio. S’ha da morire se si brama rinascere.

CONTACT ME
Mail: delriomarco.md@gmail.com




Lascia un commento