03/04/1924 – Ore 06:25 – #279
[…]Non è nostalgia la che perscepisco orora m’è il calore che porta seco la consapevolezza del sentirsi priorizzato d’una musa, una delle che mai prima potei pensare d’affiancare. V’è la nostalgia d’aver la mira diaria del mostrarsi_insuperabile nell’accaparrarsi le sue grazie e torreggiare sull’altri che di lei stanno esclusi. Eppure non debbo e non posso ergermi di sopra dell’altri poiché com’essi sono stato e quissà resto. Col senno che sovente latita riesco a discernere la nostalgia per colei che maginavo fosse quell’eoni addietro prima d’averne diretta esperienza. Ma ella non comprendeva e par non averlo mai fatto. E ‘noltre parea ser cieca alle fatiche e alle gesta mitologiche cui riuscivo ad arrivare, ella musa che non sapea come discorrere di lo ch’avrei dovuto sentirmi dire dì per dì. Chi sa ch’in fondo fossi solo un simbolo, misero me, di lo che pe’ qualche costrutto passato doveo mostrarmi alle sue inconsce tribolazioni, l’emblema dell’inarrivabile astratto ch’or pareo portarle ma con una persona a seguito attaccata, il sottoscritto, una variabile non prevista ch’ha tentato di modellare nel suo agio ideale. Ed ì più pristino che potei, del principio fin a’ limiti del mio potere, ì che mi contentavo della compagnia più economica che si possa bramare, ì che m’allenavo cotidianamente nel malsano reprimere l’istinto, sopportare e zittirmi. ‘Sì che per vero allora non è nostalgia, la che mi pervade, ma quissà solo rammarico, quissà solo il dubbio denso come la pece ch’or avvolge cada gesto e mi quistiona s’esso fosse per vero affetto sincero o ‘l naturale turbinìo del desiderio animale. ‘Sì tanto potrei mentirmi adesso ed apparire immenso, onesto e superiore a un qualsiasi ipotetico lettore. Eppure no, poiché peccai tant’anch’ì com’ella fece ed ì perfino ne’ modi che meno s’addicono all’omo ch’or seduto dinnanzi questo tenero scrittoio ordinato brama la mane di chete pe’ scriver altri versi di lode e pace, di bene e amore.[…]
Ore 20:35
Il brano ch’ho scritto stamane è la prima parte dell’epistola che mi scrissi mesi addietro poscia le molte peripezie di quel periodo, pe’ tenerla meco, ‘n un cassetto poco usato del comò, e tornarvici quando l’egoismo e l’oblio si travestono da nostalgia e traviano desei e intraprendenza pe’ trascinarmi novamente verso quel fondo del pozzo ove aveo perfino piantato le tende. Troppe volte paio prendermi ‘l lusso di reputarmi vittima o ingiustamente torturato dal corso dell’eventi; tale missiva di mio pugno mi rammenta lo ch’avrei voluto imparare trent’anni addietro: esser meglio di ieri e peggio di domani. Vivo di questo, paraddossalmente, da quand’ella si fece largo nella mia esistenza e dentr’ogni pompata di sangue in tra le vene. Che debbo dire se non mostrare gratitudine per chi, seppur ne’ modi discutibili, mi trascina a frontare le parti di me che di fatto voglio elidere del mio io? S’avrebbero da scrivere ‘sì tanti libercoli ancora sul travaglio rocambolesco d’ogni contraddizione epifanica ch’ancor blatero ‘n queste pagine. Oi non mi dilungo sull’obbligazioni o su chi sa che altro. Oi aveo bisogno di duellare con tali quistioni, di rivar ad accettare – o perlomeno, avvicinarmi di poc’ancora – ch’ogni passo indietro che faccio è un passo avanti che non faccio. E ‘l problema è che tutti i traguardi cui punto sono davanti.

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