Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #239

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23/02/1924 – Ore 11:10 – #239

Oi passeggio ma pe’ didentro. Quissà ‘l sonno di poco insufficiente oppure l’inauspicabile labirintite che m’ondeggia d’in tra le fatiche decisionali del mio autonomo gestirmi. Quissà ‘l risultato divinabile d’un mio eccessivo ligiare nell’attenermi al troppo. Quissà in vece vo’ bisognando d’un qualché ch’invero sto inniorando bellamente ch’a volte e sino di modo sovente già me lo sento vociar tra ‘n pensiero ell’altro. Eppure mi pare fisiologico quanto detestabile ‘sì che stallo di grazia e velata malinconia ‘n un fugiglio scurato che mi par mio e mio solo. Chessìa sconsigliabile? Di per certo. Chessìa tuttavia lo ch’abbisogno. Ancor più certamente. Scovar d’in tra le meste accettazioni ‘l senno e la cagione pe’ divenir lo ch’altri non maginano neppure ha di che star primo di tutti l’altri miei obiettivi. Ma quant’è criptico e tortuoso codesto sentiero fangoso ch’imperterrito m’ostino a sfidare. E sia. Già che il tedio d’un ipotetico cotidiano d’altri mi nausea e debolisce pur ne’ momenti di buio più scuro. Nulla stamane ch’abbia rinvigorito un macilento morale da crepuscolarismo economico, salvo quissà codesto paragrafo ‘n cui casi mi son costretto coll’incipire. Vuolsi per sorte poiché ne vengo di molti mesi oramai ove ‘l deturpare foglietti sin cogitar dapprima lo ch’apporvi diviene di pari d’una sessione d’un’ora colla dottoressa Nauer e per certo solo ‘l guardo su ‘n altra pila di carte bianche riempita d’inchiostro mi dona certi toni umorali che solamente le completezze e l’ordine sistematico son capaci di darmi. Quissà l’odierno mugugno è d’attribuire di fatto pur all’esagerate richieste mentali e fisiche del dì da poco scorso, ove nonostante l’efficienza del solver l’obbligazioni non ha tratto la retribuzione pecuniaria e personale ch’andavo attendendomi. Poco male, sia chiaro, di recente, casi sei mesi oramai di ‘sto punto, ho finito per apprendere ch’in citati momenti di burberìa incontrollata e apparentemente indomabile, v’è piccicato in tra le pareti del tepido inconscio, un elenco d’azioni intraprendibli per contingentar i danni nel minor tempo possibile. Primo tra essi, fin grassettato di solennità, il ripetuto stornello ch’impone di cangiar cangiando. E, per tutti i cieli, quant’è facile tant’obliabile tale solitanza. Segue, già meno corposo ma non meno fondamentale, il mio ripetermi del far dell’oi poco più del dì scorso e poco meno del sì ch’arriva. Tale cantilena esulta esponenzialmente cada dì che vien risolta per vero. E poi di fatto basterebbe. Poiché già sparsi pe’ i vari blocchi di cartacce tengo palliai di buone mire, spunti e figure di lo ch’infine sto camminando contro. Ebbene, quissà vago tanto ‘n pleonastiche rimembranze ma mi par ch’ogni piccolo squarcio di tal fattura, ogni furente valanga d’analisi su’ bassi del mio vivere, ogni elisione di scuse e rimostranze verso l’animo di bestia che par affiorare di tant’in quando, ecco, ‘sì mi par di levar lo scarpone della fanghiglia e mover ritto un poco ‘ncora. E, di fondo, non è codesto il senso del mio destarmi cada mane?



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