Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #31

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30/07/1923 – ore 05:58 – #31

Par sia per vero l’ultima dell’attività che vorrei compier oggi, lo scrivere; l’emicrania d’abuso etilico d’ier sera picchietta sin sosta in tra le tempie e la fronte, e la gola arida par non trovar sollievo coll’acqua tepida ch’ingollo a forza. Di più, le sopracciglia aggrucciate stonan pure coll’animo fervente affamato di progresso che mi trovo ad ospitare di dentro. Proprio ‘n tal momenti di contrapposizione corporea e fisica mi parlo in maniera imperativa per convincer di qualche modo la parte motoria a espletar l’obbligazioni prestabilite ne’ momenti di lucidità, nell’attimi di proposizione che ‘sì tanto anelo in casi come codesto. Lungi dal protrarre più della bisogna attività malsane e corrosive, ben so che cade su me ‘l dovere di stabilire una lineetta di tolleranza, si badi, con ottimismo e disciplina. Vo’ consigliandomi spesso, in tal casi, le solitanze diarie che tanto supporto m’han dato ‘n giorni avversi, sian esse talvolta rallentate dell’occlusioni motivazionali, più ‘l solito rinfresco peripatetico e la sana abitudine dell’affermazione enunciata, roba che parrìa malocchio al me d’anni scorsi. Per totale onestà, il mio giudizio riguardo è di fatto ‘ncora ‘n sospeso, vuolsi per un pregiudizio infondato, vuolsi pe’ li scarsi risultati esperiti. Tuttavia, tale proposizione ha sempre spinto l’ego verso accentuazioni speranzose e di quasi nulla negative, motivo per cui mi vedo consigliarmelo di tal maniera. Le cagioni per cui la coercizione a tratti violenta sul sé sia più utile del ristagno è pratica ben nota tra le milliaia di libercoli motivazionali e psicologici ch’assimilo continuamente e non vo’ diramandone in questo paragrafo i dettagli. Mi limito a ripetermi questa massima che ‘sì tante volte ha forgiato ‘l mio fare e debellato l’istinto all’agio improduttivo: ‘n una corsa di dieci chilometri, il chilometro più importante è l’undicesimo. Si badi, poscia quest’esposto, che ‘n si debba sopraffare la qualità con una quantità sconsiderata ma che si prediligs il minimo d’indispensabile corniciato d’efficienza e utilità. Tale diritto di prelazione lo reputo imprescindibile. [illeggibile] un mio conoscente rispettabile ed ammirevole: que’ giorni ‘n cui va sciogliendosi ‘l muscolo, s’annebbia ‘l senno e ‘l senso del dintorno, e ci s’istupidisce ‘n un lascivo_ozio, ebbene, lì so che debbo fare, non so ‘l cosa talvolta, ma fare, lì s’apprende quant’uno tiene a salir in fine le scale ch’elli stesso pose dinnanzi, oibò, costruirne altre addirittura. Febbricitante, l’altro dì addietro, non conobbi altro se non l’asettica morbidezza scemata della mia poltrona finché non mi persi a giuocar col punteruolo tra le dita, sfocato nelle pozzanghere ch’eran i mie’ occhi, finché non posai ‘l guardo su que’ mucchietti di noce sporco di fondo la stanza. Ah, se ‘l corpo non fu d’accordo, ancora ne ho memoria. Mi detestò pe’l resto del meriggio, quando sentivo le schegge ch’avean fame di ferirmi o le polveri del legno che miravan a riempirmi i polmoni. Lì, d’ogni modo, lì appeso ov’ora sbircio scrivendo posso mirar lo che pote far la testa perfino di per sé. Lì appeso, un pelo a sghimbescio sopra ‘l suo camino spento stava un rettangolo o casi di noce lucido che figurava un uomo sin genere, ‘n bassorilievo in tra le vene, piegato dai venti, salendo una scala sin base o arrivo, alle spalle dei sacchi tenuti per lacci e cinte, forse un masso addirittura, forse l’intero suo mondo di cose. Sul volto emaciato un sorriso ‘sì antitetico e dall’occhi un lungo rigo di lagrima. Elli mi ricorda lo che so di non aver bisogno di ricordarmi.



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