19/07/1923 – ore 04:59 – #20
Pur oggi, mio malgrado, ‘l deseo d’aver maniere d’estrarre di dentro lo che sin sosta ribolle, e perfino par prolificare, trionfa di non poco sulla di fatto capacità ch’ho di lassar scorrer questa penna ‘n questo spietato, malconcio e giudicativo brandello di carta ingiallita. Donde ne uscisti, peraltro, giacché non ne discerno un senso delle poche svanenti frasette ‘ncor restie allo sbiadire dal bordo? Vi sono ‘ncora i suo’ echi profumati d’in tra l’ante d’ogni masserizia, fino ‘l guanciale ch’ancor piega seguendone la sua nuca e inniorandone l’assidue rassettate. Lè, emblema de lo ch’ha sempre scorso a falle nel mio venir grande sin crescere, vè lo che lassi tra le favelle ‘ncor sospese e quelle schiantate contro l’ambrogette, tra le contraddizioni e le promesse ov’una diveniva l’altra e l’altra l’una ‘n un cangiar di semantiche, opinioni e umori ch’ancor pur io che le vissi veo quanto m’arduo è divenuto ‘l capire cosa occorse per vero. Carte su carte serrate ‘n buste non colla cera de’ nostr’anni addietro ma co’ cruore freddato ed esse lette, poi, per vezzo o cortesia, ormai non saprei dirlo, e gittate nel foco d’un cassetto ov’avrei voluto trovarti di questi giorni, quissà per comprenderne per vero lo ch’in modi sublimi, lo ch’in modi errati, presti, paurosi, divini ì scrissi. Or che ‘n so chi sei e che di dentro dimando s’ì sapessi mai chi fossi dal principio, or che ‘n so chi son anch’io, sgocciolato via d’ogni disattesa bisogna, ripiegato milliaia di volte su me stesso ad altercare meco, a rimproverar l’altri sé che di dentro tenzonavan passando d’un lato all’altro pe’ lo ch’ancor mi pare un labirinto sin usci. E me n’andai io, per carità. Ed ì ch’in questi fogli sputo lo che ‘n so spiegare, ì che per grazia persino m’irò comprendendo lo ch’è stato, lo ch’è ora, lo che sarà, scribacchiandolo di furie e balucinato dalle lagrime inconsce ch’ormai tediano l’occhi faticati giacché l’ego ch’or si pone a scriverne ben sa tutto e cagiona assennato. Ma ‘l dentro, l’animo o qualsivoglia nomea s’addica, esso strugge e graffia e bestemmia ed urla alle gambe di pigliar la corsa e prenderti per le spalle e casi aprirsi ‘l largo pe’ le tue menti e capire e chetare le dimande. Capire. Venti sonni e mi paion due vite e ‘l cielo solo sa e non mi dice quanto debbo ‘ncor bellare meco pe’ rivar a capire. Capire che, poi? Capire me, mi rispondo ormai.

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