26/01/1924 – Ore 06:02 – #211
Ier poi m’accasciai restìo sul sofa, casi arreso alla fatica del corpo ch’infine avea preso ‘l sopravvento su me. E fu un bene, mi dissi poco dopo, poscia circa venti minuti di lievissimo sonno inquinato dalle rumoranze che venian della finestra sulla strada e dallo scroscio dei pensieri miei che tuttavia s’appannarono quel che bastava pe’ concedermi ‘l tempo di recuperare appena le forze. Di fatto, ho continuato ‘sì poco più desto e rigenerato ‘n alcune faccende ch’aveo di che finire, perlopiù su qualche documenti ch’ancora attendeva il mio vaglia per esser archiviato a dovere. Ho pensato di contattare Ada ma l’ora s’era già fatta tarda e ho pensato che sarebbe stato più assennato concederle molte più ore di lavoro durante il fine di settimana che, al momento, mi resta privo d’impegni visto che aveo già programmato dì addietro di spender qualche giorno con Lily e quissà debuttare ‘n qualsivoglia nova attività con ella. Inoltre, non v’è molto di cui concernersi ‘n questa piccola prigioncella ‘sì confortevole per il core, sebbene qualche rabbocco delle vivande e una lucidata al mobilio mi sian più che graditi. Perlomeno, è lo che mi dico e ripeto tante volte durante le settimane che fin Ada ha compreso che la mia ossessione del rassettamento, più che sovente, è solo ‘l modo ch’ho di proiettare ‘l mio disordine tra le recchie. Sicché mi son messo a scriver molto, spulciando anche alcuni erranti foglietti senza dimora che teneo celati qui ‘n una tasca e lì tra le pieghe d’un libretto; mi sarei dilettato anche ‘n liriche e qualche giuoco colle parole se non fosse ch’aveo cominciato ier mattina per l’appunto ‘n altro libriccino e, di recente, le letture mi confortan ed esiliano ‘sì tanto dalli sforzi diari che mi trovo a battermi colla bisogna di porvi un segnetto ed arrestarmi dal completarle. Non che sia di che rammaricarsi, lo ben so, ma v’è sempre quell’ombra, nell’ora del coricarsi, che mi rode appena di dentro convincendomi, o tentando di farlo, di ‘n aver di fatto concluso chissaché e d’aver sciupato l’ore di veglia ‘n quisquilie e vagheggiamenti. Ah, quant’anni ch’ì combatto con tale ombra. Ne ho parlato molto anche con Camille, ella ch’è sì tanto studiata ‘n tali imbrogli del pensare, e ne venimmo a capo molte volte, un dì imputandone l’origine alle stagioni di solitudine ch’ebbi da sopportare, e un altro pe’ l’esagerate mire che perpetuo nell’appormi sin cagione. Si badi ch’ella non tentò mai di fatto di curarmi o scacciare tale ombra assillante dal mio capezzale ma di segregarla ‘n un angolino, colle nove lucenti catene ai polsi che forgiavamo co’ nostri dialoghi, ove dallì non pote aver effetti sull’umore mio. Sicché era questo il trambusto che m’angustiava, di per certo. E le detti ragione, alla bella Camille, ‘sì tante volte che casi mi vedeo bimbo che dinnanzi alla mappa della sua città non trova la stradella ove sorge la sua casa e la maestra gliela indica poscia le quattro o cinque volte ch’il bimbetto ha indicato altri edifizi. Mi presi la briga d’attestare sul mio mare di foglietti e libelli di tutte le cose che, se stiamo proprio a vedere, ogniddì compivo sin la necessità o l’obbligo e che quissà niun altro ‘n questo buchetto di Britannia fa colla mia costanza e ‘l mio cipiglio determinato. Ha funzionato, e ora lo dico colla pace che sol un’affermazione vera porrìa dar in questo frangente, sebbene ‘sì tante volte m’ho costretto a rincorrer novamente la strigliata magnanima di Camille. E stia, per carità, allora, l’ombretta arcigna accoccolata sul mio comò a sbiascicare le sue iniquità provocatorie ch’ì alla fine non mi riservo nemmeno del ringraziarla pe’ l’innumerevoli punzecchiate al fianco mio già dolorante che m’ha costretto a prendere tal sentiero scosceso fin ov’ì son d’adesso. Ah, quanto poco cangerei de lo ch’è stato, caro diariuccio di vanvere sin fine. E pensa, pure, che Camille m’ha consigliato di tenerne uno novo, di agendino com’esto qui, ov’invece narro de lo che passa per i miei santi pensieri ma che ‘n si pote toccare, qual mio stare coll’altri e che vò pensando d’essi, le mie cagioni per l’atti fatti e bivi ch’imbocco e via così di tutto lo che non parla di fabbriche, uisge, pinzillacchere di rimpetto a ‘n mucchietto di spicci. Ecco, un poco come l’aveo incipito duecento giorni addietro, quando mi perdeo molto nel filosofar d’un signorino ferito sin comprendere per vero ch’in tutto lo che in fine tocco e movo nel cotidiano v’è tanto di quel parlar per simboli e parole difficili. Che poi vi tornerò a dirle tutte queste cose e tornerò perfino a dirne l’opposto, o a darmi ragione. Ché forse tale è come pensan tutti. O bene, quissà ch’ì non sia dissimile, in vece. Ma sto divagando tanto, stamane, con ‘sì tanto piacere che mi sconderìa ‘n queste carte fino che la fame non venga a picchiettare puntualmente al mezzo dell’ora. Oi mi recherò ‘n Train Street, presso lo stabilimento distrettuale della Letterlong Corporation, ove dividerò l’ore di tediosità inventariale con Stewart e Ludmilla. Qualche rigo più avanti descriverò Ludmilla, me lo punto pe’ ‘n obliarlo. Verso la prima ora del meriggio mi recherò alla stazione di Lylcoin donde Lily giungerà sul convoglio diretto e di lì scialacqueremo l’ultime ore ‘n qualche vezzo ludico che ‘sì tanto bisogniamo poscia queste due lunghe settimane. Ebbene, Ludmilla Shooters è una signorotta ormai ‘n età di nonna che non s’avvezza al mostrarsi tale e s’ostina a evader la pensione per quanto ‘n età bella e buona e s’impone, e casi impone al signor Tinsteel, di contribuire alle nostre obbliganze d’impiego sventolando i suoi tanti anni d’esperienza ‘n essa. Il che non pote nemmeno venir messo ‘n dubbio ché di fatto travaglia pe’ fabbriche e stabilimenti vari fin quand’ì ancora bighellonavo per l’accademia. Tuttavia, vuolsi per il venir meno della prestanza fisica e di pochetto anche della lucidità del senno, son sorti per cagion sua più che pochi impicci, di qua e di là, talvolta una svista, talvolta un capriccio, talvolta veri cataclismi che debbon smuover poi mezza azienda pe’ ser sanati. Ludmilla è bassina, nè magra nè tonda, con un gialletto innaturale che le circonda le rughe impomatate del visino schiacciato sotto uno scarlatto belligerante e dai margini disordinati sparso alla benemmeglio sulle labbra strette. Ella ciarla sin dir nulla, quissà lo che più spesso m’ha irritato d’ella, ch’odio il rumorese di convenienza e di situazione. Eppure, oramai, mi ritrovo ‘sì tanto sovente a regalarle quell’empatia e comprensione che niun par darle, sebbene sia di fatto, perlomeno ‘n mente, l’esempio ‘n calce de lo che l’ombra mia_al capezzale teme più d’ogni cosa.
Da “Il Diario delle Vanvere Terapeutiche di Arthur Parker”

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