25/07/1923 – ore 04:42 – #26
Resta, indi, vero che per il quanto ci si diletti ‘n mantra di sforzata gratitudine, contrarsi ‘n tenzone coll’innata insoddisfazione dei di sè desei e la seguente cangiante natura delli stessi s’appalesa come un sabotaggio del percorso ch’imo speranzosi. Chi lo sa chessìa quissà modo d’istinto ch’ha lo proprio istinto per grapparsi e scoterci via del percorso che non sappiamo, perlomeno coscienziosamente, ser fallace. Oppure chi lo sa se ‘n fine sia indice di tenacia di ciascuno de la volontà d’investigare cada caso ch’avviene sul percorso. Di modo mio, solgo convincermi e condividere la seconda delle due per quanto casi obbligata_al fine di iustificare la proverbiale pertinacia ch’appongo nel perpetrare li stessi sentieri quantunque pioggino passi fallaci e d’ostacoli uno stormo, quissà per tipo atipico de lo percorso stesso. Pur vero ch’il forzar una partenza verso l’assenza estrinseca del deseo, diviene esso stesso deseo per definizione, per quanto dissimile ‘n molti o pochi tratti. Eppoi fretta. E competizione. Salata ‘n principio. E tanto degni avversari, dappoi. Disputare avversi la natura animale che faticosamente gioghiamo o, per estremo, innioriamo l’esistenza. Stolide bestie. Eppur tale mi volgo casi troppo sovente: animale che sono e che ‘sì tante volte bramo restare, confinato ‘n questi trialoghi viziosi ed eretici che dubbiano ‘l fine ultimo dell’esser animale o specie.
Ore 19:34
Espera torrido. ‘N tutte l’accezioni ch’ì porrìa scovare nell’acrobazie linguistiche. Benamati foglietti ch’impiastro di nulla pe’ fingermi erudito di lo ch’ancor ho da comprendere. E quissà, dire. Scanso le faccende diarie ‘n questi resoconti per pura pigrizia, per vene di vergogna, addirittura, e per ser in queste bisbeticherie sin fini lo che un dì a venire sarò per di fuori, quand’un vomito d’epifaniche vanvere non avrà cagione d’inquinarmi l’agende, l’umori e ‘l riso che tanto vanto e giubilo sfodera meco. Qual che m’ha portato a viver una vita anche ‘n questo libello? Quissà ch’una non basta. E per ‘sì tanti, una d’altro canto, è fin troppo. Oibò, quanta superbia, signor Parker.
Da “Il Diario delle Vanvere Terapeutiche di Arthur Parker”

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