Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #25

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24/07/1923 – ore 05:12 – #25

Vi son due maniere che riesco a discerner attualmente per indulgere in la tristezza del dolore e ‘l dolore della stessa. Quella inerte e quella consapevole. Per canto mio, galleggiare e lassarmi trasicare all’orizzonte ‘n completo abbandono volontario è modo d’esser e fare che per quanto paia parer fine a sè e d’implicazioni ch’ì resto inesperto, permane ‘l percorso più celere a que’ grappoli epifanici e di poco tangibili che reputo obbligati per mutare ‘n aria lo che dapprima era gogna. Quali son allora li confini e le sfumature accettabili che permetton o vietano di discorrere di disperazione, oblio, nostalgia o male umore? V’è implicazione individuale e storica ch’ha da tenersi considerata più la dialettica che ‘n pote competere a tale nè pure quando tale dialogo si dirotola di dentro la medesima testa che pena. Parlasi in questo punto indi sol di gradi e scale di soffrimento? Se tuttavia ‘l soffrire preclude ‘n senso di conforto e sollievo ‘n un crogiolar in tali sfogature ‘sì bramate dal corpo, resta ancora soffrire oppure vi sono graduali indici da stabilire e misurare perfino nelle pene ch’ì com’altri generalizzo nell’ozio? V’è una bisogna stoica di goder del sentir pena ch’esige a chiara voce terminologie differenti e incomuni sulle quali, per inappropriata immaturità, ancor non barcameno e di molto posso riuscirvi all’appropriare voci talmente definite o sufficientemente piena quantunque volga. Resta che ‘n sarà il soffrire tale composto di consapevolezza muta e ‘l ristoro accennato del superamento o de la medesima presa di consapevolezza della pena. Giacchè mai vidi ‘n contesto serio un medicante operar colle bende sull’occhi. ‘Sì è per coloro che desean suturare delusioni, ingiustizie e affronti de lor pensiero, lassando che i rivoletti tocchino l’arco dei labbri mentre s’abbraccian paure nell’impotenza dello star fronte l’ignoto apparente. Que’ momenti ove morte od echi d’essa sorgon tangibili nel cotidiano individuale s’apprestano a pari passo l’opportunità d’un divenir cresciuto, ombra d’oltreuomo. Colle calli cieche e l’arti legati, l’obbligazione unica diviene ‘l dialogo fanciullesco che tanto s’odia e si sentenzia. Quissà discorrer d’altro ‘n dì a venire. Discorrer del pensar discorso m’inquina appena. Fresca è la ferita che ‘n riesco a inniorare, nè colla Kryomont o coll’indugio etilico. Sto delirando ‘ncora e non abbastanza.

Da “Il Diario delle Vanvere Terapeutiche di Arthur Parker”



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