diVagazioni in Prosa: “Intenti”

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Pozzanghere di beffardo futuro impregnavano ogni angolo, sebbene i miti e le favole si rifiutassero ancora di sbiadire e mordessero con ferocia innaturale quella palazzina di mattoni, all’incrocio tra April Street e St. Gone. L’edificio s’ergeva scomodo tra i pilastri in vetro e i bagliori al neon che danzavan tutt’intorno, loquaci e giovani. La città sfoggiava, infatti, un mosaico d’epoche, ove le nuove corsie per i dirigibili storcevano il naso ai viottoli acciottolati e alle lanterne a gas che masticavano il brulicare frenetico degli abitanti. Al secondo piano della saggia palazzina, in un ampio bilocale sfumato dalle candele, viveva Victor, un trentenne consumato dai rimbalzi nei vizi, gli occhi impregnati di tante storie non raccontate ma vissute troppe volte. Il suo regno di disordine sistematico traboccava di libri stropicciati, coriandoli di appunti, locandine ingiallite e scrivanie di cose da fare, tra una macchina da scrivere e gli avanzi freddi di caffè nelle tazze sparse intorno. Un solenne orologio da parete dominava l’intera stanza, le lancette immobili su un’ora a caso, ormai familiare al suo coinquilino, un respiro trattenuto che protestava alla frenesia della città aldilà, quell’altrove che Victor sorseggiava dalla finestra, fatto di fretta e destinazioni ma non mete, di incroci ma non incontri, di pensieri ma non riflessioni, di tante parole e pochi respiri, di tanto discusso e nulla detto. Lì da quel davanzale silente, Victor contava i battiti del suo cuore scandire il ritmo d’ogni dialogo ancora non scritto, lì, da quel porticciolo sgangherato, osservava la marea salire e ritrarsi, le lune affacciarsi sull’ultimo omino impagliato che accasa furioso, i vascelli di caciare e innocente ignoranza fracassarsi sugli scogli ormai smussati. Lì, Victor si chiamava scrittore, poeta, giocoliere e, sempre lì, si allenava in ottimismo e determinazione, in una gara di salto a ostacoli che all’alba parea sempre truccata. La sua figura sottile, tra l’etereo e il preoccupante, vantava una chioma riccioluta di un nocciola intenso, barba timida e sparuta e contorni spigolosi. Poggiato sui gomiti fronte alla sua macchina da scrivere, danzava sgraziato sullo scivolar dei giorni, in un equilibrio a dir poco precario tra l’inesauribile immaginazione e il guardo affamato del foglio bianco, tra il brillìo d’un’idea e un vetro opaco di dubbi e incertezze. Le storie, tuttavia, erano ovunque, esplose tra i ninnoli e il mobilio, tra i libri adottati in giro per la contea, per le regioni ovvero, fra le cartacce svolazzanti che scandivano incipit e trame, fra il posacenere appena sporco e l’odore ancora aleggiante d’una tisana esotica. Le storie erano nelle note gracchianti del suo grammofono sempre acceso, nella polvere dei suoi alambicchi dimenticati su una mensola, nel mesto accartocciarsi del tappeto che non conosce passo se non il suo, nel domani che tornava a essere un oggi, intriso di speme e risposte, o perlomeno delle domande giuste. Victor viveva di attesa e parole, circondato da una città che non conosceva l’attesa e non parlava la sua lingua. In tale capanna di rimuginazioni e memorie, Victor sfoderava il suo fioretto contro un nemico tanto invisibile quanto terrificante: quell’oasi di leggende e vite così ostinatamente riluttanti all’assumere forma di frasi, di periodi, di capitoli. Sicchè le notti mutavano in teatri d’ombre e protagonisti muti, trame non tessute, colpi di scena sbriciolati fra liste e calendari, una gabbia a forma di finestra, una finestra a forma di quartiere e un quartiere che, a studiarlo meglio, pareva solo un altro pezzo della stanza. Ogni giorno e ogni giorno ancora, scavando tane concentriche in quei rituali e mantra che da nessuna parte mai lo portarono, si sporcava di sole per caso, zigzagando fra gli intenti e le minacciose responsabilità che poco avevano da compartire coi suoi sogni. Ogni giorno quella sinfonia di letture ovattate che sbollentavano nei suoi pensieri fra l’invidia e l’ispirazione. Ogni sera, que’ spiritici desideri si spegnevano con lui sul cuscino, tanto crudeli ed ermetici quanto effimeri. Fu proprio una sera, crepuscolare in tutte le accezioni, che Victor poggiò l’ultima volta i gomiti sul bordo della finestra della sua gabbia, appeso alla solita litania di anime spavalde e ronzanti. In quella poltiglia di nessuni, un clochard aggiustava il passo con un’indolenza quasi aristocratica, stagliando un profilo a fuoco nella foschia di fretta adulta. L’estraneo, errante e assorto, navigava a rilento in un mare diverso, serenamente indifferente al clamore intorno. In lui, Victor vide prima quello che l’uomo portava dentro, quello che indossava all’interno, quel soprabito di quiete mistica puntinata da rassegnazione compiaciuta, quello scialle di resilienza e saggezza non cercata, imperitura e semplice. Fu una scintilla croccante quella che Victor percepì sgattaiolare sul dorso della mano fin giù per la schiena, un rivolo caldo d’echi prospettici a cui fin’ora aveva solo urlato contro. Fu come sentir l’estraneo urlarglielo ad ogni fibra del suo corpo, scotendolo con la fermezza tenera che solo un babbo può fare. Forse era il contrasto fra la cadenza del passo di quell’omuncolo atipico e l’eruttare scomposto della folla, forse il trasfigurare quel passante sfortunato nel faro di cui aveva bisogno, nell’icona d’una libertà spensierata e matura cui anelava da lustri. Quell’occhi calmi, quel mover armonico, quella consapevolezza che Victor sapeva a malapena dipingere in rime di tanto in tanto. Da faro a monito, da passante a sveglia, quel quadro, forse visto mille giorni ma mai veramente guardato, gli bisbigliava il sentiero della speme, della riscoperta, dei nuovi inizi, dei gai fallimenti sì intrisi di lezioni. Dov’era rimasta assopita questa fame di vita per così tanto tempo? Dov’era questa voglia d’afferrare i demoni per il colletto, fissarli negli occhi e sorridervi addosso? E come poteva ora la penna scorrere così celere sul foglio? Violente gocce di pioggia su una lamiera parevano i capitoli battuti sulla tastiera, ogni indentatura un abito a misura d’una persona che mai pensò di divenire, che sempre sperò di diventare. La notte gli si poggiò accanto, puzzando ancora un poco di stagnazione e rimprovero, sempre più buia, sempre più stanca, sempre più chiara, fino ai pastelli sussurri della prima alba di un altro Victor, senza destinazione ma con una meta, l’occhi di quel vecchio estraneo immobile, fuori dal tempo e dalla ragione, che lo scorgevano alla finestra della palazzina più bella del quartiere, accettando la sua imperfezione, accogliendo il caotico grido d’aiuto che Victor gli scaraventò addosso, abbracciando il coraggio di viver di domande senza risposta. Immerso, di nuovo, davvero, nel cappotto, nei ciottoli, nel vociare confuso, nelle contraddizioni, Victor stava lì, lì dove avea visto l’estraneo la sera prima, lì dove ogni viso, ogni scorcio, ogni odore, adesso, gli moveva la mano, gli dettava il passo, gli teneva il braccio. Sorrise in mezzo alla gente.


Camere sin favella, l’ora sosta
Tra i saggi sparsi, l’intenti sparuti,
E ‘l far nell’angolo ch’osta
L’urgenza dell’affari incompiuti.

Del dimani l’eco par lunga a seguir,
Vossia, sirena del poi lontano,
Litania del tornare a compatir
Quel gesto ‘n fatto, teatro sin piano.

Gioco d’attesa e perdo, difatti,
Giogo d’attese, d’intenti ‘l morso,
Far sì, ma in là, restar inesatti
Da qui, clochard su fervente corso.


“Intenti” – La Prosa



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