Il Diario delle Vanvere Terapeutiche #102

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09/10/1923 – ore 06:55 – #102

Considero quasi vittoria, all’alba d’oggi, il fatto di aver rifiutato l’invito della sveglia soltanto una volta, accogliendo con rassegnazione l’imperiosa necessità di separarmi dal mio letto alle prime luci del mattino. Una modesta ricompensa, questo piccolo gesto, dona la sensazione di un avanzamento, pervadendo i miei pensieri fin da quest’ora ancora immersa nell’ombra notturna. Lily è rientrata a Gersburg, ed è a me che incombe l’arduo compito di affrontare una serie di giornate infauste, consacrate alla fissazione di appuntamenti vitali per il nostro operato, dei quali la sede centrale di Polyem mi ha onorato di custodire. Questo, tutto ciò, mentre cerco con diligenza di assicurare il soddisfacimento delle quote di vendita di carburante vegetale, in un’incessante commistione di doveri, imposta dal signor Barweight. Ah, se soltanto potessi infondere nelle incombenze quotidiane la stessa fervida passione che dedico alle mie divagazioni poetiche e alle mie escursioni nella sfera del futile lirico! Il mio ludofono, dall’angolo della terrazza mi osserva con occhi carichi d’invidia mentre io mi accingo a scrutare il mio fitto programma del giorno. Al momento, paradossalmente, non vi è molto da riportare, o forse la mia mente, soverchiata dall’artificio della veglia inattesa, ha semplicemente ammantato di nebbia le sue facoltà. Tuttavia, non posso fare a meno di notare che le prospettive per la giornata, la settimana e persino i mesi a venire paiono sbrilluccicare come mai prima.

ore 17:23

Benedetti sian què giorni che com’oggi mi scaraventan dosso la penombra più appiccicosa e scorbutica possibile. Quan pe’ cagioni avulse dalla volontà mi ritrovo impantanato nell’inerzia della sottovalutazione, nelle lacune motivazionali, nella ricerca d’un cassetto abbastanza capiente per l’irrazionale deseo di detestar l’ogni. Ché sta all’io, per carità, ne son ben conscio, oramai, dopo l’infiniti trialoghi egoistici. Eppur, per natura, per l’altra natura che trascino a fatica, vo’ mettendo a soqquadro ogni recondito angolino del mi’ esperito per le maledette candele che so d’avere. Perennemente ‘sì quando implode il buio; ribaltar armadi, scartoffie, ragionamenti, affamato solo del tremolar effimero d’almeno una colonnina in cera che mi possa indicar il senso. Spegniti, a volte, perfido me, spegniti e concedimi talvolta lo che van vivendo l’altri che mi scorron per strada.

Da “Il Diario delle Vanvere Terapeutiche di Arthur Parker”



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